La trappola del tempo è il titolo della mostra di Luciano Sozio che inaugura il 25 novembre alle 18 presso lo Studio Legale de Capoa di Bologna (Via Petrarca 2).

La trappola del tempo di Angela Madesani

Qualche tempo fa Antonio de Capoa mi ha chiamato, proponendomi di organizzare delle mostre nello studio legale di Bologna, che condivide con sua figlia Maria Flaminia e con altri colleghi. Il motivo è l’amore nei confronti dell’arte, la curiosità della scoperta, l’apertura
verso altri mondi. La proposta mi ha allettato, è una sorta di sfida in cui l’arte contemporanea dovrebbe riuscire a entrare a far parte della quotidianità di un luogo destinato ad altro.

Se c’è un aspetto del mio lavoro che me lo fa amare ogni giorno di più è la lontananza da qualsivoglia forma di abitudine. Occuparsi di arte, studiarla, entrare in contatto con gli artisti è per me entusiasmante, nonostante le difficoltà, le piccole e grandi sconfitte, i
progetti non riusciti.

L’estate scorsa, attraverso un altro artista del quale mi stavo occupando, ho conosciuto Luciano Sozio, il cui lavoro mi ha subito emozionato. È la sua una ricerca silente, appassionante, che necessità di metodo, di studio sia per realizzarla che per
comprenderla in tutta la sua intelligenza raffinata e misurata.
Così ho deciso di proporre come mostra iniziale di questo cammino, allo Studio de Capoa, il suo lavoro.

Non possiamo certo pretendere di dare vita a una mostra antologica, quanto piuttosto al
puntuale saggio di un lavoro che è difficilmente collocabile, al di là della semplice definizione tecnica del linguaggio con il quale viene realizzato. La sua è una pittura che poggia le sue più profonde radici nella tradizione in quel longhiano mondo di “poesia dei
minimi”, che ci conduce a Piero della Francesca.

È forse solo un caso che il cognome Sozio sia anche quello di un maestro umbro del XII secolo, figura centrale della scuola pittorica spoletina? Lo è sicuramente, ma ugualmente mi piace intravvedere una sorta di collegamento tra le due figure a quasi mille anni di
distanza. Il suo approccio alla pittura è metodico, di ogni opera vuole avere il controllo totale, partendo dalla preparazione delle singole tele e del colore attraverso i pigmenti. Nel corso del tempo ha studiato delle ricette che sono frutto di sperimentazioni, ma anche di studio dei singoli materiali, delle loro caratteristiche e prerogative, che diventano un suo patrimonio, quasi segreto.

Sozio lavora molto, studia, fa ricerca e porta avanti più lavori contemporaneamente. Ogni opera è il ritratto di un teatrino più o meno complesso, che l’artista costruisce, di volta in volta, nel suo studio pescarese.

È come se nella sua ricerca tutto trovasse un senso, la disciplina del sistematico modus operandi gli deriva forse dall’essere stato in gioventù uno sportivo agonista, l’amore per i pigmenti, probabilmente, dal suo primigenio avvicinamento all’arte, attraverso la ceramica.

E quindi i soggetti che giungono dalla sua passione per il mondo vegetale, così come l’aspetto concettuale della sua ricerca gli arriva dallo studio di alcuni artisti, primo fra tutti Giorgio Morandi.

In mostra sono alcuni lavori provenienti dalle sue più recenti serie: Fly Traps e The Hunter.
«Quando nasce una serie c’è sempre una catena di situazioni che convergono in un punto esatto. Uno dei miei primi ricordi risale a quasi quarant’anni fa, ero nel giardino della casa dei miei genitori a Isernia e mi annoiavo parecchio, così ho deciso di cacciare tutte le
farfalle e di spingerle verso l’interno della casa» 1 . Il riferimento è chiaro.

1 L.Sozio, in conversazione con chi scrive, agosto 2023.

«Poco prima di realizzare Fly Traps, a Bologna, avevo visto una bellissima mostra di Morandi. Tornato in studio ho pensato alla possibilità di ribaltare il paradigma del vaso con il fiore» 2 . Si è così procurato dei vasi, delle piante, degli oggetti e ha costruito i set, che poi ha disegnato. Il disegno nella sua opera è portante da un punto di vista progettuale: è un test per capire se lo sviluppo in pittura può funzionare. Esso, tuttavia, mantiene una dichiarata autonomia.

I soggetti qui proposti arrivano dalla quotidianità. Sono oggetti comuni, senza preziosità intrinseca di sorta. Le sue non sono nature morte quanto still life, in cui il tempo è bloccato. Tempo del quale Sozio pare prendersi gioco, in relazione all’unica certezza dell’esistenza, la sua fine. In fondo la trappola non è che un oggetto di morte. L’artista cerca di uscire
dalla dinamica irreversibile di quanto ci aspetta. Una dinamica che all’uomo non è dato conoscere nella sua completezza, velata dal mistero stesso dell’esistenza, al quale l’artista fa riferimento attraverso gli spazi non dipinti, che troviamo anche negli Hunter, così nella
figura di donna con la scopa in mano, in cui si scorge la piccola coda di un insetto. È il dettaglio che dà il senso all’opera.
I suoi sono oggetti della memoria. In un gruppo di dipinti è una sedia appesa al muro in evidente precarietà. Ha iniziato a lavorarci quando è scoppiata la guerra in Ucraina, in un momento di totale destabilizzazione. «Ho dovuto tentare più volte prima di riuscire a
creare il set definitivo. Volevo rendere l’attesa ancora più esaltante. Mi sono divertito e ho sofferto al tempo stesso» 3 .

In ognuno dei suoi lavori è la precarietà del tutto. I suoi sono lavori mentali, in cui emergono tracce continue del nostro presente. La chiave di lettura, il senso, per sua stessa ammissione, è al di fuori dell’opera: il filo che regge ogni cosa è
nelle mani dello spettatore. È tutto precario ma si avverte un evidente desiderio di cambiamento. Potrebbe accadere qualcosa, manifestarsi un evento che per un attimo e in un attimo può rompere la simmetria dei fenomeni e il riferimento torna alla fine, alla morte. L’artista dichiara un senso di responsabilità, in un tempo storico in cui sembra mancare del tutto. Nessuno vuole prendersela. Rendendo partecipe lo spettatore, gli si lasciano in mano le redini del gioco. L’artista parla in tal senso, con un riferimento alla teoria della percezione, di “completamento amodale”, un concetto sul quale anche Morandi ha lavorato parecchio. I lavori qui in mostra, una piccola parte della sua ricerca, sono tutti ambientati all’interno. Il riferimento è a uno scritto di Yuval Noah Harari 4 , che ha fatto un’arguta riflessione sul fatto che l’uomo, che all’inizio era in fondo alla classifica dei predatori, oggi ne è al vertice e per questo si sente un’invincibile divinità. Le nostre tane sono le case, i luoghi dove ci sentiamo al sicuro. Forse, tuttavia, potrebbe trattarsi di una trappola? Non dobbiamo dimenticare che esistono gli Hunters, i cacciatori. Sono la sfida ad attirare qualcosa e l’attesa del momento propizio.
Nella ricerca di Sozio è una dimensione di surrealtà fortemente poetica, che porta a una sorta di annullamento degli eventi solo apparentemente reali, in verità creati, provocati.

È la precarietà del fenomeno e dell’esistenza che rimanda, anche iconograficamente, alla sua grande passione nei confronti dell’artista funambolo Philip Petit, che negli anni Settanta ha camminato e danzato su un filo teso tra le torri gemelle a New York. Un personaggio che oscilla tra il silenzio della concentrazione estrema e la follia del coraggio altrettanto estremo. E forse proprio questo è un metro possibile di lettura di queste opere, in cui la dimensione estetica e quella poetica si fondono in un unicum delicato e potente al
tempo stesso.

2 idem
3 idem
4 Y.N.Harari, Sapiens. Da animali a dèi: Breve storia dell'umanità, Edizione italiana, Bompiani, Milano, 2017.